L’endocardite è una grave infiammazione (generalmente batterica) che colpisce le pareti interne del cuore e delle valvole. Si verifica spesso nelle persone più fragili, come gli anziani o coloro che hanno già subito interventi cardiaci. Inoltre, può essere aggravata dal conseguente sviluppo di un ascesso. Anche intervenendo rapidamente, la mortalità è piuttosto alta. Ma gli scienziati hanno individuato una nuova tecnica in grado di aumentare il tasso di sopravvivenza, nel caso di endocardite su protesi valvolare.
Endocardite, una nuova speranza
Le persone che hanno subito un trapianto della valvola aortica possono essere soggette ad endocardite. Questa infezione colpisce spesso le pareti interne del cuore, ma non è raro che si manifesti anche a livello della protesi. I soggetti a più alto rischio hanno una mortalità ad 1 anno che arriva addirittura al 75%. Quando l’endocardite si verifica su protesi valvolare, il tasso di mortalità è di circa il 30% (percentuale che aumenta se si sviluppa anche un ascesso). A peggiorare la prognosi è il fatto che questa patologia è frequentemente correlata a complicazioni cardiache o neurologiche.
Un intervento tempestivo è fondamentale: spesso la terapia antibiotica non è sufficiente, e bisogna ricorrere ad un’operazione chirurgica. Gli esperti di Cardiochirurgia di Anthea Hospital (Bari) hanno messo a punto una nuova metodologia che aumenta notevolmente il tasso di sopravvivenza. Il loro studio, pubblicato su Reviews in Cardiovascular Medicine e in Scientific Reports, è il riassunto di ben 13 anni di attività, periodo nel corso del quale i medici hanno applicato questa tecnica innovativa. Il risultato? La mortalità a 30 giorni è scesa dal 30% all’8,5%. E nessun paziente ha avuto una ricaduta di endocardite.
A spiegare in cosa consiste questa nuova tecnica è il dottor Giuseppe Nasso, responsabile della Cardiochirurgia di Anthea Hospital. “Prevede la rimozione della protesi infetta e l’impianto di una nuova valvola, la quale viene applicata non più sul tessuto colpito tramite patch, come con la tecnica tradizionale, ma in una posizione molto più alta rispetto all’anulus aortico, e quindi su tessuto sano. Così facendo le pareti ripulite dall’infezione rimangono aperte permettendo una migliore guarigione”.