“Quando si parla di claustrofobia?”: abbiamo rivolto alla dr.ssa Giovanna Tatti, specialista in Psicologia, questa domanda, cercando di capire insieme come superare la comunissima paura per gli spazi chiusi.
La claustrofobia (fobia di luoghi chiusi), così come la sua sorella agorafobia (fobia degli spazi aperti) sono fobie molto diffuse, che producono stati d’ansia intollerabili e portano a gravi limitazioni della vita delle persone, che temono, fino a doverli evitare, i luoghi chiusi come ascensori, gallerie, ponti, ma anche i sensi unici, le file ai supermercati, le autostrade, perché non si può uscire quando si vuole, o, nel caso della agorafobia, sentono di non potere proprio uscire di casa (o possono farlo se accompagnati da qualcuno).
Nel caso della claustrofobia, il timore fobico è di rimanere chiusi dentro, all’interno di luoghi fisici, appunto, ma anche all’interno di situazioni socialmente rigide (compleanni, cerimonie, file in uffici pubblici, attese ai caselli autostradali…), o in ruoli determinati, lavorativi o relazionali.
Tutto può diventare una scatola, una prigione e, nel tentativo di liberarsi da questa angoscia, indurre a desiderare di lasciare il lavoro, di separarsi dai propri compagni di vita, ecc… La manifestazione somatica di questo disturbo è molto marcata e come nel caso dell’agorafobia, si arriva a dei veri e propri attacchi di panico.
Con le emozioni correlate e le percezioni somatiche invalidanti: la tachicardia che porta con sé il timore di stare avere un infarto, la paura di impazzire, di esplodere, la mancanza d’aria, i tremori, fino alle contrazioni muscolari che rendono gli arti rigidi, etc; dove, a volte, la matrice ha a che fare con la rabbia temuta incontrollabile.
Spesso, inoltre, tutto questo quadro sintomatologico si accompagna a un’emozione di grande vergogna, esclusione e indegnità.
Dunque, la claustrofobia si gioca fra la paura di essere chiuso entro un certo sistema di doveri e valori e la paura di essere escluso dalla socialità, dalle relazioni affettivamente dense a causa della propria intima ribellione/dissidenza verso di esso.
Sia nel caso della claustrofobia che della agorafobia, l’Io reagisce come se il pericolo provenisse dall’esterno (i muri che si muovono restringendo lo spazio che limita l’ossigeno presente nella stanza necessario alla sopravvivenza o la coda al supermercato, per intenderci), mentre l’insorgenza dell’angoscia può essere in una certa misura controllata, a condizione che vengano attuate le opportune strategie di inibizione e di evitamento.
Le fobie, di per sé, sono soluzioni straordinarie per l’economia psichica. Tutta la quota di angoscia, rabbia, aggressività viene convogliata all’interno di un oggetto (fobico, appunto), lasciando libero il funzionamento residuale. Certo, la “scelta” dell’oggetto fobico ha un rilievo: se ho la fobia dei leoni e abito al centro di Milano, probabilmente la mia vita sarà limitata minimamente (potrò limitarmi a non fare il tour in Namibia); se, invece, sempre vivendo in città, si avesse la fobia dei semafori o delle macchine o del rumore del traffico, allora diventerebbe molto più complicato.
Come si diagnostica la claustrofobia?
Da un punto di vista “diagnostico”, che preferirei definire di comprensione del senso del sintomo, possiamo rinvenire una difficoltà primariamente rispetto alle separazioni, che tendenzialmente rimanda a difficoltà di attaccamento.
Come ricordava Winnicott, uno psicoanalista che molto si occupò di bambini e della relazione madre-bambino, un ambiente sufficientemente “supportivo” e “responsivo”, in grado di contenere le angosce del bambino, favorirà in lui il graduale sviluppo di quella autonomia che consente, nel tempo, di affrontare le separazioni, di esplorare il mondo e di creare liberamente nuovi legami affettivi.
Queste sicurezze di base stanno alla base di quella che Winnicott definisce “la capacità di stare da soli” (che implica la capacità di simbolizzare l’assenza dell’altro, di sentirlo dentro di noi, di recuperarlo nella sua rappresentazione interiorizzata, nella propria mente, anche in assenza), esito dell’interiorizzazione delle funzioni materne e del graduale sviluppo dei processi di mentalizzazione di emozioni e sensazioni corporee.
Partendo da qui (e dalle prime riflessioni di Freud su questi sintomi che già nel 1938 scrive: “lo spazio può essere la proiezione dell’estensione dell’apparato psichico […]. La psiche è estesa di ciò non sa nulla”), diversi psicoanalisti hanno dedicato studi approfonditi su questi due tipi particolari di fobie entrambe in rapporto allo spazio – l’agora e la claustrofobia – e che si presentano questa grave compromissione delle sensazioni corporee di fronte allo spazio esterno.
La claustrofobia si può curare?
Come dicevo prima, la paura di affrontare gli spazi aperti o i luoghi chiusi spesso prende la forma di crisi di panico, che sono accompagnate da sintomi somatici importanti e invalidanti, quali sensazioni di vertigini o di svenimento, fino ad arrivare a sentimenti di derealizzazione e depersonalizzazione, che sono delle difese che si possono attivare alla percezione di pericoli importanti, estremi, talvolta.
Da ciò deriva una serie in inibizioni motorie, di misurazioni degli spazi percorribili, di tragitti, il calcolo dei mezzi di trasporto consentiti o la necessità, per fronteggiare la forte angoscia, di non essere soli, di avere accanto “un compagno fidato”, così definito dalla psicoanalista Helen Deutsch, che verrebbe a compensare il senso del vuoto d’essere o la labilità dei confini dell’Io.
Va sottolineato che le fobie (in generale e quelle dello spazio nel caso specifico) assumono forme e gravità diverse in base alle angosce sottostanti, a seconda che esse siano più primitive (angosce di sopravvivenza) o invece più evolute e che sono connesse alla conflittualità nelle relazioni investite affettivamente: desiderio/incapacità di separazione oppure, nel caso di reazioni claustrofobiche, fuga dai rapporti vissuti come soffocanti o pericolosi.
Tentare di dissuadere o sottrarre qualcuno alla propria fobia, prima di conoscerne il significato inconscio risulta inutile, se non dannoso, in quanto si sottrarrebbe con violenza quella funzione protettiva – sebbene patologica e limitante – del sintomo che lascerebbe la persona senza difese e quindi esposta all’angoscia e al panico primitivi e non più controllabili attraverso la fobia.
Un buon trattamento psicoterapico, talvolta affiancato a un trattamento psicofarmacologico, prescritto da un medico psichiatra nei casi più invalidanti, può essere un valido sostegno soprattutto all’inizio. È, invero, esperienza di molti clinici che spessissimo, una volta iniziati i primi colloqui di valutazione le angosce paniche si riducano notevolmente, probabilmente perché si è finalmente scelto e trovato un luogo sicuro (la stanza della consultazione/terapia) dove iniziare a prendersi cura di sé.
Come dico spesso ai miei pazienti: “lei è andato avanti come un carro armato cercando di superare, o meglio mettere di lato, tutte le difficoltà profonde e dolorose per andare avanti senza fermarsi un solo istante: ora, l’attacco di panico che paralizza chiunque la ha obbligata a fermarsi e a chiedersi cosa succede, e a occuparsi davvero di sé (delle fragilità e non solo degli obiettivi da raggiungere”.
A RISPONDERE ALLE DOMANDE:
Dr.ssa Giovanna Tatti
Specialista in Psicologia