Ampiamente diffusi nella pratica clinica per la loro efficacia, i betabloccanti sono farmaci utilizzati per trattare diverse condizioni, soprattutto le malattie cardiovascolari. Il primo impiegato a uso clinico è stato il Propranololo, dopo il quale sono state prodotte moltissime altre molecole. Per diverso tempo, però, i medici sono stati restii a prescrivere i betabloccanti ai pazienti diabetici o in stato di pre-diabete, poiché vi è una relazione tra l’attività di questi farmaci e gli effetti sul metabolismo glucidico.
Abbiamo rivolto alcune domande a Chiara Tuccilli, Biologa e Dottore di Ricerca in Endocrinologia, per capire insieme qual è il loro effetto sull’organismo.
Cosa sono i betabloccanti?
I betabloccanti sono farmaci che legano e inibiscono i recettori beta-adrenergici. Questi ultimi si trovano sulla membrana cellulare di diversi tipi cellulari e vengono attivati dalle catecolamine, in particolare dall’adrenalina e dalla noradrenalina. Esistono tre tipi di recettori beta-adrenergici, chiamati beta-1, beta-2 e beta-3. I primi due sono quelli di interesse clinico e sulla base dei quali sono stati sviluppati i farmaci betabloccanti.
Il recettore beta-1 si trova soprattutto sulle cellule del cuore e del rene, mentre il recettore beta-2 è tipico delle cellule muscolari lisce dei bronchi, dei grandi vasi, delle coronarie e dell’apparato gastrointestinale.
I farmaci betabloccanti sono prevalentemente impiegati come trattamento per le patologie cardiovascolari, tra cui ipertensione arteriosa, aritmie cardiache, infarto del miocardio e insufficienza cardiaca. Le molecole attualmente disponibili sono numerose e possiedono proprietà diverse tra loro, di conseguenza inducono risposte biologiche diverse e, dunque, anche effetti benefici e collaterali differenti.
I primi betabloccanti prodotti, per questo denominati di prima generazione, sono stati gli antagonisti non selettivi dei beta-recettori. Essi inibiscono l’attivazione di entrambi i tipi di recettore, diversamente dai betabloccanti di seconda generazione, i quali inibiscono solo il recettore beta-1. Alla terza generazione di betabloccanti appartengono sia farmaci selettivi sia non selettivi, ma hanno delle proprietà aggiuntive. Infatti, alcune molecole sono dotate di attività simpaticomimetica intrinseca, vuol dire che sono in grado di attivare debolmente il recettore beta-adrenergico.
Questo tipo di attività si esplica solo quando il ligando naturale del recettore, ad esempio l’adrenalina, è presente in bassa quantità, vale a dire in condizioni di riposo. Diversamente, ad esempio durante l’attività fisica o con lo stress, i betabloccanti con attività simpaticomimetica esercitano solo l’effetto di antagonisti dei recettori beta-adrenergici.
Il vantaggio di questo tipo di betabloccanti è di evitare alcuni effetti collaterali, ad esempio la bradicardia nel soggetto a riposo. Vi sono poi dei betabloccanti che hanno proprietà vasodilatanti accessorie, attraverso diversi meccanismi d’azione, e sono particolarmente utili per il trattamento dell’ipertensione arteriosa.
Qual è la loro relazione con il diabete?
L’argomento della relazione tra assunzione di betabloccanti e diabete ha interessato molti clinici e ricercatori per diverso tempo, perché i betabloccanti, soprattutto quelli di prima generazione, sono stati sospettati di essere diabetogeni. Diversi studi, infatti, hanno osservato l’aumento del numero di casi diagnosticati di diabete mellito nei pazienti in trattamento con betabloccanti di prima generazione e con alcuni di seconda generazione.
I beta bloccanti selettivi con proprietà vasodilatratrice, invece, sembrano essere quelli maggiormente raccomandabili nei casi di insulino-resistenza (una condizione che pone a rischio di diabete), poiché non alterano la sensibilità all’insulina.
Da menzionare è anche il fatto che i betabloccanti non selettivi potrebbero compromettere il recupero dall’ipoglicemia e mascherare i sintomi del profondo calo glicemico nei pazienti diabetici in terapia insulinica, rappresentando quindi un serio problema.
Il primo effetto è dovuto al fatto che le catecolamine, cioè le molecole endogene che attivano i recettori beta adrenergici, sono coinvolte nella mobilizzazione del glucosio in risposta all’ipoglicemia. Bloccando l’attivazione del recettore, i betabloccanti impediscono di ripristinare rapidamente i livelli normali di glucosio.
Il secondo effetto, invece, è dovuto al blocco dei recettori beta-2, i quali sono coinvolti nella secrezione dell’insulina da parte del pancreas. Pertanto, nei pazienti in terapia insulinica sono consigliati i betabloccanti selettivi.
A RISPONDERE ALLE DOMANDE:
Dr.ssa Chiara Tuccilli
Biologa e Dottore di Ricerca in Endocrinologia